La ristorazione detta fine dining – letteralmente del “cenare bene” – sta facendo i conti con una contrattura della capacità di spesa dei clienti.
La situazione economica italiana, non proprio tra le più floride, favorisce l’attenzione verso spese di altro genere e di quotidiana utilità: il ristorante cosiddetto ‘fine dining ‘ , che si esprime in piatti raffinati, rinnovati, conditi da fantasia ed effetti “wow”, sta facendo fatica – tranne le consuete e fortunose eccezioni – a definirsi tra i riferimenti gastronomici di un pubblico anche solo “mediamente” spendente. Si consolidano, invece, i ristoranti dediti alla valorizzazione delle ricette tipiche, locali o regionali: proposte di piatti esteticamente molto belli ma informali, comprensibili a tutti e con prezzi giustificati e in equilibrio rispetto dall’andamento generale dei mercati. Naviga col vento in poppa, invece, il segmento della ristorazione stellata che è riuscita a diventare identitaria e rappresentante eccellente della capacità di fare impresa nel settore ristorativo in Italia.
Abbiamo approfondito la questione con il giornalista e critico enogastronomico milanese, Alberto Schieppati
1. Cosa vuol dire fare ristorazione fine dining e ristorazione stellata?
Ormai lo abbiamo imparato a memoria: per Fine Dining si intende l’alta ristorazione in senso lato, con riferimento all’offerta di cucina raffinata, che spesso coincide con la ristorazione ampollosamente definita “stellata”, con chiaro riferimento alle stelle Michelin che l’omonima guida assegna ogni anno ai ristoranti, appunto del Fine Dining. Che poi, se volessimo uscire da certi schemi, direi che Fine Dining dovrebbe essere usato per tutte quelle situazioni di cucine perfettamente eseguite, in cui talento culinario, qualità delle materie prime, tecniche di esecuzione, servizio e ambientazione concorrono a creare un’esperienza realmente “fine”, ovvero bella e buona.
2. Da cosa è determinata la cosiddetta ” crisi del fine dining” che il comparto sta riscontrando ?
Non parlerei di vera e propria crisi ma di momento di acuta riflessione, talvolta sofferta, in altri casi evolutiva, che il comparto della ristorazione sta attraversando. Una cosa è certa: la gran parte della società italiana- in modo particolare chi ama uscire a cena per piacere o a pranzo per affari -, predilige format di ristorazione più semplici, in cui prevalgono gusto e tradizione (sempre che sia autenticamente rispettata), i prezzi siano meno elevati e, complessivamente, ci sia meno concettualità.
La vera “trattoria italiana”, non a caso, sta vivendo un ottimo periodo di successi, a condizione che offra una ristorazione “sincera”, semplice e di sostanza, con tutti gli attributi che ben conosciamo. È altrettanto evidente, però, che un’esperienza di ristorazione alta, presso una cucina guidata da chef talentuosi, in grado di offrire linee di cucina di livello elevato, in ambienti esteticamente appealing, è qualcosa di unico, che resta impresso nella memoria.
3. Si stanno susseguendo notizie di varie chiusure per questo tipo di ristorazione o chef che decidono di approcciarsi a una cucina più tradizionale: come mai?
Appunto, c’è una certa insofferenza verso quel Fine Dining che risulta incomprensibile ai più, che non regala gioia e spensieratezza ma, viceversa, impone al cliente impegno e tensione psicologica: chi esce a cena non ha più voglia di andare a lezione di alta cucina o di essere servito da camerieri in livrea. Quel tempo è finito. Così come è entrato in crisi quel modello economico. I costi per le aziende di ristorazione sono sempre più alti ed è sempre più complesso, quasi impossibile, fissare un conto economico vantaggioso, senza dover ricorrere alla finanza a ai famosi fondi che aiutano nelle difficoltà e che garantiscono le coperture dei conti importanti (ma che peraltro non sono certo l’opera francescana). È tutto molto complicato.
Per tornare alla domanda, in particolare sul ritorno alla cucina cosiddetta tradizionale, è tutto vero. Poi, per carità, una cena da Carlo Cracco o da Davide Oldani, alle Calandre dei fratelli Alajmo, da Vito Mollica nel suo ristorante Atto a Firenze, fino a ricordare Davide Scabin, attualmente al ristorante del Grand Hotel Sitea a Torino ma che già al suo Combal Zero iniziò la sua rivoluzione, o ancora, dal mio amico Antonino Cannavacciuolo, che ebbi l’onore di scoprire nel lontano 2001… beh, queste sono esperienze gastronomiche di ampio respiro, non solo gastronomico ma anche culturale e umano. Chef (o cuochi) che, come diceva Gualtiero Marchesi, sanno far diventare arte la cucina.
4. Questione Felix Lo Basso. Lo chef ha dichiarato che ” Milano e i milanesi non hanno compreso esattamente il suo format”: da milanese doc e giornalista di settore, ci puoi raccontare come, invece, avrebbe dovuto proporsi alla clientela?
Felix, alla faccia di chi oggi lo denigra, è uno chef talentuoso, forse anche troppo. Nel senso che ha sempre voluto esprimere se stesso in modo talvolta iperbolico, senza prevedere le difficoltà del caso (media distratti o disattenti nei suoi confronti, luoghi comuni, una certa mediocrità della critica nei confronti della sua cucina). Certo, Milano non lo ha capito e lui non ha capito Milano: talvolta è molto difficile da comprendere, anche per me, credetemi! Ha fatto bene a trasferirsi a Lugano, dove certamente certi sperimentalismi di avanguardia vengono più apprezzati.
5.Qual è, secondo te, il futuro della ristorazione italiana?
La vedo molto bene, nel solco di una tradizione decennale che vede la cucina italiana al primo posto nel mondo, dopo l’entrata in crisi della francese. Vedo peraltro un ridimensionamento delle cucine che io chiamo “inconcludenti”, che vogliono stupire, che pretendono o impongono l’allineamento del cliente, l’accettazione di format vecchi, ovvero: piatti complicati con troppi ingredienti, proposte arzigogolate, formalismi insopportabili. Con il rischio che le cucine di troppi chef vadano poi ad assomigliarsi, rischiando l’omologazione e la noia da parte della clientela.
Viceversa, intravvedo un consolidamento di tutte quelle forme di ristorazione ben strutturate e definite in ogni dettaglio, che sanno approcciare e comprendere la clientela e che hanno capito la sottile arte del non esagerare, con idee di cucina più semplici (non banali, quelle le lasciamo a certe catene) ma anche con prezzi più adeguati al mercato. Non possiamo lasciare che l’alta cucina sia in appannaggio solo della clientela straniera alto-spendente, la quale, peraltro, arriva in Italia per gustare in primis la cucina dei territori, le cucine regionali, le specialità tipiche perfettamente eseguite nel modello trattoria. Con passione, impegno e know how.
6. Alberto Schieppati oggi: dove preferirebbe andare a pranzo e a cena?
Sono tanti i ristoranti del mio cuore, dovrei citarne almeno una cinquantina, pizzerie comprese. Se parliamo di trattorie, la mia preferita è I Bologna di Rocchetta Tanaro (At) che metto a pari merito con l’Osteria di Fornio, a Fidenza (Pr). Cucine in cui comandano cuoche di entusiasmo e passione: la Mariucca Bologna, sfoglina d’eccezione, e Cristina Cerbi, magica espressione di un terroir formidabile. Poi, come dicevo, sono centinaia i ristoranti in cui si mangia alla grande. Massimo Bottura docet, mettetela come volete.
La Famiglia Cerea- da Vittorio-, è un esempio internazionale di imprenditoria creativa ed esasperatamente attenta alla materia, al fattore umano, all’accueil, al servizio. Poi, per un’esperienza grandissima, Peter Brunel (fuori dagli schemi), Andrea Aprea (grande classicità contemporanea) o Roberto Di Pinto (fantasia ai massimi sistemi), o Elio Sironi (genio instancabile, incompreso dai “soloni” della gastronomia). Etnico? Il Gong di Giulia Liu: unico e inimitabile, per lo stile della conduzione e l’eccellenza della cucina, attenta ai dettagli e perfetta nelle esecuzioni.
Intervista a cura di Chiara Vannini