Roberto Anselmi: “Ecco perché ho deciso di fare a modo mio”.

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Di soave, diciamola proprio tutta, ha poco o nulla: fuori dal disciplinare dagli anni ’90, ma i suoi sono grandi vini conosciuti e apprezzati nel mondo. Il carattere è di quelli granitici, a volte indigesti, sempre comunque a tinte forti e dalle scelte senza compromessi. Un solo schieramento: dalla parte della qualità. All’apparenza docile e gigione come un San Bernardo: ma sulla vigna e in azienda è un pastore tedesco. Ma proprio per questa sua filosofia di vita di Roberto Anselmi possiamo parlare come di un maestro: della viticoltura veneta portando le Denominazioni della Garganega ad un posto di tutto rispetto nel panorama enologico mondiale.

Anselmi lo raggiungiamo al telefono nel tardo pomeriggio: dopo l’ennesima visita tra i suoi filari, questa volta visti dal basso dopo tanti giri di ricognizione con il suo elicottero. 70 ettari in collina non sono pochi «Con la testa per aria si scruta, si osservano le vigne, si programma» ci dice Anselmi. «Con i piedi per terra si toccano i grappoli, la loro maturazione, il loro colore. In azienda si fa il vino chiudendo il ciclo produttivo». Nulla è lasciato al caso, niente improvvisazione, scelte maniacali che solo i grandi vignaioli sanno fare: ereditate dal padre, e ancor prima dal nonno, trasmesse ora ai due figli.

Un’annata che poteva andare male ma che alla fine ci regalerà come sempre grandi vini

«Quest’anno la produzione in pianura è stata falcidiata dalla grandine e di violenti temporali; per fortuna i miei terreni sopra Monteforte d’Alpone non hanno subito gli stessi danni. Ha piovuto in modo giusto, la produzione è eccellente un’annata che poteva andare male ma che alla fine ci regalerà come sempre grandi vini». I Capitelli (oro smagliante, con l’olfatto che si snoda su note di albicocca, mango, papaia e cedro candito con note iodate e minerali); il Capitel Croce (paglierino con riverberi dorati; passerella aromatica di frutta a polpa gialla, arachidi e mimosa, sapido con bella presenza minerale); il Capitel Foscarino (paglierino sgargiante, in un ventaglio di frutta bianca estiva, pompelmo, citronella, minerali e toni salmastri); il San Vincenzo (colore paglierino, con aromi di nespola, fiori di limone, pompelmo, mandorlato) e la Realda (dal colore rosso rubino, con profumi di ribes, noce, pepe nero, tabacco da pipa con discrete note vegetali; persistente nel finale ben sorretto da tannini vellutati). Dunque grandi vini: e un disciplinare salutato negli anni 90 e lasciato alle spalle senza nemmeno un rimpianto.

Non credo nel monovitigno ma voglio avere altre varietà, altre tipologie che mi possano dare un vino con la sua aromaticità, personalità…

«E’ una storia vecchia e per certi versi dolorosa ma necessaria nelle sue scelte. Non condividevo più nulla del Consorzio del Soave con le sue leggi, regolamenti» sottolinea Anselmi. «Tecniche di coltivazione e rese per ettaro, mentre io faccio la resa per pianta; commercializzazione del Soave che viene svenduta a prezzi mortificanti. Per fortuna 5 o 6 produttori hanno capito anche loro le mie ragioni, ciò che ho proposto e stanno facendo la loro strada davvero in modo eccellente. Non credo nel monovitigno ma voglio avere altre varietà, altre tipologie che mi possano dare un vino con la sua aromaticità, personalità. Non si può ottenere questo solo con la garganega e lo chardonnay: voglio fare a modo mio».

Un “my way” cominciato negli anni 80: quando Roberto Anselmi ha cominciato a girare per cantine. Grandi produttori fuori regione, fuori d’Italia in Francia anzitutto «Perché dovevo capire come si potevano fare grandi vini bianchi in questa terra, con la loro esperienza, con ciò che mi hanno trasmesso e che io ho adattato al mio territorio. Rivoluzionando certo: perché non potevo essere legato a quello che mio nonno prima e mio padre poi avevano come modello produttivo. A mio padre devo moltissimo, ma è di un’altra generazione. Lo stesso vale per me e per i miei figli che già sono inseriti in azienda e che mi stanno dando tantissime soddisfazioni. Devono crescere, studiare, capire: ma sono sulla strada giusta».

Che poi, per un granitico come lui, la strada è una sola: il viticultore, con la sua storia le sue evoluzioni e sempre con le sue decisioni. «Le cantine oggi sono aziende dove è entrato il designer, l’architetto, l’arredatore. La tecnologia e l’ingegneristica: ma se vogliamo produrre ciò che la terra ci può dare allora il principale lavoro è proprio del viticultore. Solo così potremo conquistare sempre più nuovi mercati, consolidare quello nazionale, aprire a quelli stranieri, stare al passo con la concorrenza oggi non più solo francese».

Il consumo tra i giovani, educarli a bere sano e responsabile…

E poi il consumatore: quello a cui giustamente Roberto Anselmi si rivolge «perché è lui che fa la fortuna di ogni azienda vitivinicola. Stare attenti ai suoi messaggi, alle sue richieste. Seguire il consumo tra i giovani: che sono le nuove generazioni. Educarli a bere bene: sano e responsabile. Far conoscere loro il vino di qualità: dietro una mia bottiglia c’è una storia, un lavoro, una imprenditoria. Una bottiglia che esce dalla mia azienda non è frutto del caso, della fortuna o della improvvisazione. Ma di un duro lavoro quotidiano che parte dalla vigna e finisce sulla tavola del consumatore».

“My way” ci saluta: con un sogno nel cassetto «mi piacerebbe che ogni produttore di queste parti potesse capire fino in fondo quanta potenzialità ha ancora questa terra. Nel produrre vini che sono frutto di scelte personali e professionali. Ecco perché ho deciso di fare “a modo mio”». Come smentirlo, visti i risultati.

Lorenzo Palma

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